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ReplicaArgomento del Forum: Re: Re: No alla Cittadinanza onoraria Da: Marco Portosalvo

> Dall’ascesi alla vita
Perché noi buddisti della Soka Gakkai non giriamo con la testa rasata e non seguiamo norme di comportamento severe per autoperfezionarci e non cadere nelle offese e nelle tentazioni? Perché non ci spogliamo di tutti i nostri beni materiali e non viviamo di elemosine? Il Buddismo ci autorizza a possedere una casa, chiedere un aumento di stipendio, andare in pizzeria, avere molte paia di blue jeans di colori diversi, e cose simili? Dove sta scritto che possiamo?
Questa, che sembra una tipica domanda che si pone solo ai nostri giorni, in conseguenza di un presupposto annacquamento dello spirito originale, descrive in realtà un problema con cui il movimento buddista ha dovuto fare i conti fin dagli albori della sua storia. Il motivo di queste diverse interpretazioni sta nella differente risonanza che l’insegnamento di Shakyamuni produceva, in particolare a seconda che fosse diretto ai monaci o ai laici.
Questi ultimi, ai quali mai l’Illuminato chiese di sottoporsi a regole particolarmente rigide, apprezzavano soprattutto il carattere egualitario e pertanto decisamente rivoluzionario del Buddismo, che aboliva le barriere e i privilegi di casta. Man mano che l’organizzazione monastica si consolidava, quelle barriere tendevano invece naturalmente a risorgere. Una conseguenza inevitabile della separazione dal mondo e della concentrazione rivolta unicamente alla disciplina e alla conservazione degli insegnamenti. La questione toccava degli aspetti talmente centrali che in occasione del secondo Concilio, appena cento anni dopo la morte di Shakyamuni, proprio su questo punto si ebbe il primo scisma all’interno dell’ordine buddista.
Ma già ai tempi del primo Concilio, tenutosi probabilmente immediatamente dopo l’entrata di Shakyamuni nel nirvana, la questione si era presentata in termini simili: quanto porre l’accento sulla disciplina monastica e quanto invece adattare le regole alle esigenze dei tempi e della vita quotidiana per favorire la diffusione e la vitalità dell’insegnamento? Su questo si creerà una frattura che diventerà sempre più marcata nel tempo e che 500 anni dopo la morte del Budda porterà alla nascita del movimento mahayana (grande veicolo), di cui anche la Soka Gakkai fa parte. Questa corrente, composta in grande maggioranza da laici, operò una sorta di riforma con l’intento di ripristinare lo spirito originario del Buddismo, contrapponendosi ai Theravadin (insegnamento degli Anziani), che conosciamo anche come Hinayana (piccolo veicolo), il nome dato loro, com’è noto, dai seguaci del Mahayana.
Nel Sutra di Vimalakirti, un testo che contiene essenzialmente confutazioni dell’insegnamento Theravada, a conclusione di un dibattito fra Vimalakirti e Manjushri sulla figura del bodhisattva, appare improvvisamente una dea che cosparge l’assemblea di fiori celestiali. I fiori caduti sui bodhisattva scivolano a terra, mentre quelli che cadono sui discepoli shomon (uomini di studio) rimangono appiccicati ai loro corpi. Questi, preoccupatissimi, cercano invano di staccarseli di dosso. Allora la dea chiede a Shariputra: «Perché cerchi di strapparti via i fiori?» E Shariputra risponde: «Cerco di liberarmene, o dea, perché fiori del genere non si addicono alla persona di un monaco». La dea allora gli spiega che i fiori non hanno alcun preconcetto riguardo alla persona più adatta a loro. E che, se si erano attaccati proprio su alcuni, era perché in loro dimoravano ancora preconcetti e pensieri discriminatori.
Come si vede, si tratta di un contrasto che esiste da millenni, che ciclicamente riemerge all’interno delle comunità buddiste. Se davvero ci si propone seriamente di realizzare l’obiettivo di indicare a tutti gli esseri umani la strada per liberarsi dalla sofferenza e ottenere l’Illuminazione, osservano da sempre i laici assieme ai monaci più appassionati, bisogna elaborare un linguaggio e dei modelli di comportamento che si accordino con i tempi e la capacità di apprendimento delle persone che li abitano. Non come un compromesso, ma come occasione di costante rivitalizzazione di princìpi che per natura ed esplicita intenzione del loro fondatore non hanno senso se non possono radicarsi in persone vive e concrete. Perché Shakyamuni avrebbe adattato i suoi insegnamenti alla capacità di chi ascoltava se non fosse stato convinto che l’essenziale di quello che diceva era il potere che avevano le sue parole di condurre tutti senza eccezione alla liberazione dalla sofferenza?

Al di là degli opposti
La pratica buddista si chiama anche pratica della Via di mezzo. Questo concetto venne espresso già in uno dei primi insegnamenti di Shakyamuni, quando abbandonò la casa paterna e si spogliò di tutte le sue ricchezze per andare a cercare il senso della vita e le ragioni della sofferenza umana. Si ritirò nella foresta e praticò molto seriamente quelle che erano le vie ascetiche più dure di quel periodo. Benché fosse il più promettente tra i discepoli, tanto che alcuni suoi compagni già lo consideravano un maestro, a un certo punto capì che quella strada non lo avrebbe portato a trovare le risposte che cercava, e la abbandonò. Si lavò nel Gange, mangiò una ciotola di riso e latte offertagli da una ragazza, riprese le forze e di lì a poco ottenne l’Illuminazione. Nella prima predica rivolta ai suoi compagni asceti, che lo avevano accusato di aver abbandonato per debolezza le pratiche dell’autonegazione, Shakyamuni disse: «Vi sono due estremi in questo mondo, o monaci, che l’asceta dovrebbe evitare. Quali sono? Il dedicarsi ai desideri e l’indulgere al piacere dei sensi, che è cosa spregevole, bassa, depravata, ignobile e infruttuosa; la ricerca delle privazioni e della tortura, che è cosa dolorosa, ignobile, infruttuosa. Vi è una Via di Mezzo o monaci, scoperta dal Tathagata, che evita quei due estremi. Essa apporta la chiara visione e comprensione, conduce alla saggezza e alla tranquillità, al risveglio, all’Illuminazione e al nirvana…» (Daisaku Ikeda, La vita del Budda, Bompiani, p. 49).
Praticare la Via di mezzo non significa semplicemente agire secondo il buon senso e trovare un equilibrio, per esempio, fra edonismo e ascetismo, libertà e organizzazione o quant’altro. Trovare questo equilibrio è solo una conseguenza, la manifestazione esteriore di una delle scoperte più rivoluzionarie del percorso buddista, ossia il superamento della visione dualistica. Il mistero della vita si risolve quando ci rendiamo conto che non si tratta di scegliere tra essere e non-essere, materia e spirito, vita e morte, assoluto e relativo, ma che ogni istante e ogni fenomeno contengono contemporaneamente gli aspetti che a una mente non illuminata appaiono come opposti. Ciò equivale a dire che siamo comunque dei Budda, a prescindere dal fatto che ce ne accorgiamo o meno. Questo è ciò che la scuola mahayana ha messo in evidenza dell’esperienza di Shakyamuni.
Ma se siamo potenzialmente dei Budda, sorge una domanda: che cos’è la Buddità, e come ci si arriva?
Cercando di mettere in pratica gli insegnamenti del Budda e di seguire il suo esempio vivente, e allo stesso tempo di cogliere sempre più perfettamente e in modo chiaro in che cosa consista quella “verità fondamentale che può essere compresa solo tra Budda”, cioè l’esperienza dell’Illuminazione, i suoi seguaci mahayana hanno disegnato un solco unico, profondo e nella sostanza perfettamente coerente. Un itinerario che parte dall’intuizione fondamentale di Shakyamuni, passa attraverso l’elaborazione da parte di alcuni grandi esponenti del Buddismo indiano del concetto di “vuoto” e di non-dualismo, si definisce ulteriormente con la formulazione della coincidenza di assoluto e relativo nel principio di ichinen sanzen operata dal Buddismo cinese della scuola di T’ien t’ai, e arriva fino a Nichiren, che individua nel titolo del Sutra del Loto l’essenza dell’esperienza di Shakyamuni e di tutti i Budda dell’universo.

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